Piangere da adulti

Woody, Buzz e gli altri sono nella fornace della discarica. Scivolano verso la fiamma rossa, la fiamma brucia rifiuti. Cercano di scappare, di arrestare la caduta, di uscire dalla massa di immondizia tritata, una montagna di coriandoli, che li sommerge. La caduta è inarrestabile,  la fiamma è vicina, gigantesca. Buzz prende la mano di Bonnie, Woody afferra Rex che stava precipitando più velocemente degli altri. Tutti hanno capito, Mr e Mrs Potato si guardano, questa volta non c’è niente da tentare, possono solo darsi la mano, fare una catena e aspettare la fine. Woody è un cowboy, Buzz un soldato spaziale. Woody e Buzz hanno fatto la rivoluzione: nel 1996 Toy Story vinse l’Accademy Award come primo film interamente animato al computer. Nel 2010 Toy Story 3 è stato il primo film animato a superare il miliardo di dollari di incasso.

Deitch Projects è una galleria d’arte con la facciata bianca, a SoHo, NYC, tra Broadway e West Broadway, al 76 di Grand Street. Dal 26 luglio al 18 agosto del 2007, in programma alla Deitch Projects, c’è Nest, un’installazione di Dan Colen e Dash Snow. Luglio è un mese speciale per Dash Snow, proprio nel 2007, a luglio, è nata sua figlia: Secret. Lo stesso Dash è nato a luglio e a luglio sarebbe morto. A luglio, nel 2007, alla galleria Deitch Projects di SoHo, si apre Nest, Il Nido.

Nest (il Nido) è una stanza piena di brandelli; nota anche come The Hamster Nest (la tana del criceto) una performance che consiste nel fare a pezzi l’ambiente circostante e rotolarsi tra le macerie, per nascondersi, per divertirsi, fare delle foto: per ricordarsene.  La tecnica del Nido è: strappare tutto il materiale lacerabile che sia nella stanza, per esempio la bibbia delle camere d’albergo, usare tutte le droghe a disposizione, ubriacarsi con tutti gli alcolici a disposizione, fare sesso con tutte le persone disponibili, scattare delle foto. Dash Snow usa una macchina Polaroid.  Negli anni Dash ha fatto Il Nido diverse volte, nelle polaroid si vedono letti ricoperti di stracci di carta, nei letti ci sono Dash e i suoi amici, sono nudi, sono con delle prostitute, sono drogati, sono ubriachi, sono giovani, si stanno rivoltando e nascondendo nei rifiuti che li sommergono.

Dash incarnava ogni cosa che volevo fotografare e ogni cosa che volevo essere: irresponsabile, sconsiderato, spensierato, selvaggio e ricco.

Ryan McGinley, luglio 2009

Per l’installazione del Nido alla Deitch Projetcs, luglio 2007, alcuni volontari hanno stracciato circa duemila copie dell’elenco telefonico di New York City: ci hanno messo tre giorni, con i brandelli hanno riempito la stanza al 76 di Grand Street. All’inaugurazione gli invitati hanno partecipato al Nido, hanno bevuto, si sono tuffati e rivoltati tra i rifiuti, c’era un concerto, hanno ballato, si sono spogliati, hanno fatto delle fotografie.

Quando stavo guardando Toy Story 3, durante la scena della fornace, mi è venuto in mente il Nido di Dash Snow, le sue polaroid, le foto dell’installazione alla Deitch Projects. Non saprei dire se mi sia venuto in mente la prima volta che ho visto il film o in un delle visioni successive. Per gli adulti è diventato normale guardare i film della Pixar, ma solo i genitori sono abituati a vederli due, tre, anche quindici volte. La qualità del film della Pixar è accettata dagli adulti, anzi guardare film della Pixar, con o senza obblighi parentali, è il segno dell’essere aggiornati alla proposta estetica contemporanea, una proposta che non divide il pubblico in adulti e bambini.

Mio figlio aveva circa tre anni quando ha cominciato a interessarsi ai film. Per alcuni terribili momenti avevo temuto che il mio futuro si sarebbe popolato di pupazzi gommosi che avevano sempre fame, o altre forme aberranti prive di linguaggio. Poi un’amica mi aveva fatto presente che avrei potuto avanzare delle proposte autonome: cioè fargli vedere quello che avrei deciso io, non quello che programmava la tv. Per la mia generazione è stato normale accettare la programmazione della tv e immaginare che il nostro margine di scelta fosse cambiare canale. Liberarsi da quell’abitudine al subire il palinsesto non è stato immediato, si trattava di accettare l’innovazione tecnica per cui la maggior parte dei film non li avremmo più visti in tv ma sul computer. Il mio momento di emancipazione è stato il film Yellow Submarine, del 1968, con le animazioni e le canzoni dei Beatles, la prima proposta che ho autonomamente sottoposto al bambino di tre anni. L’esplosione dei film è stata, poco dopo, Cars, motori ruggenti. Ne avevo scaricata una copia di qualità bassa, le immagini erano buie e, per conbinazione, in inglese; a mio figlio non importava, l’abbiamo visto decine di volte, sullo schermo di un portatile 13 pollici, anche così.

Dash Snow è morto a luglio del 2009, aveva 27 anni. Nella stanza del Lafayette House hotel, East Village, NYC, c’erano due lattine di birra vuote, una bottiglia di rum vuota, 13 boccette di vetro contenti tracce di eroina e tre siringhe usate. I bisnonni di Dash Snow, John e Dominique de Menil avevano commissionato a Mark Rothko una cappella a Houston, in Texas. La cappella non confessionale di Rothko contiene quattordici quadri, tele monocrome nere, ed è posizionata vicino alla collezione di arte contemporanea della famiglia: la de Menil Collection. La collezione di arte contemporanea de Menil è di circa 17 mille opere,  è una delle più vaste e importanti collezione d’arte degli Stati Uniti. Il palazzo che ospita la de Menil Collection è stato progettato da Renzo Piano, la collezione contiene, tra gli altri, Picasso, Matisse, Warhol, Rauschenberg. A riguardare oggi le polaroid di Dash Snow viene in mente che abbia inventato Instagram: i filtri che cambiano la luce, la produzione immediata, la possibilità di condivisione. In un’intervista del 2008 alla rivista francese Purple Fashion, Dash Snow aveva detto, parlando delle sue opere, che la storia che c’è dietro può essere più importante di quello che si vede nella composizione. A ripensare oggi alle copertine del New York Post che Dash Snow aveva colorato e decorato con sperma e sangue viene da pensare al rapporto organico che ci siamo abituati ad avere con le notizie date dai mezzi di informazione. Mezzi per una fine (Means To An End) è il titolo di un’opera di Dash Snow composta da un tavolo che contiene boccette per la droga vuote, siringhe usate e tutte le altre cose che aveva trovato mettendo a posto il suo appartamento sulla Avenue C quando si era trasferito. – Quel posto era davvero incasinato, ci ho messo una settimana a ripulirlo e quello che ho trovato l’ho messo in quel tavolo. A volte, le storie dietro un’opera sono più importanti di quello che non si veda nell’opera stessa.

Nell’ultimo film della Pixar, Inside Out, c’è una scena molto simile alla fornace di Toy Story 3. I protagonisti sono finiti in una specie di discarica e rischiano di svanire, di venire letteralmente polverizzati dalla memoria. Devono trovare il modo di salvarsi dalla discarica dei ricordi come i giocattoli di Toy Story 3 dovevano salvarsi dalle fiamme della fornace. Per preparare l’installazione alla Deitch Projects, Dash Snow aveva chiamato quindici compagni tra artisti e amici e aveva passato una notte nella sala al 76 di Grand Street facendo il Nido: usando le droghe che avevano a disposizione, ubriacandosi, disponendo del posto e facendo tutto quello che gli venisse in mente. Una notte non si era rivelata abbastanza per completare l’opera, al gruppo si sono aggiunti altri componenti e le notti sono diventate cinque. All’inaugurazione, il 24 luglio del 2007, c’era anche la nonna di Dash Snow, Marie-Christophe de Menil. È stata sua nonna a sostenere Dash Snow economicamente dopo che Dash aveva interrotto i rapporti con il resto della famiglia, una delle famiglie più ricche degli Stati Uniti.

Nel novembre del 2007 la rivista The New Yorker ha pubblicato un profilo di Jeffrey Deitch e della sua attività di gallerista, recensendo, tra l’altro, Il Nido (o Tana del Criceto)

La scorsa estate Deitch ha affidato la galleria su Grand Street ai giovani artisti Dan Coleman e Dash Snow, per una delle loro installazioni Tana del Criceto. I due hanno riempito lo spazio, fino all’altezza della cintola, con i brandelli di duemilacinquecento elenchi telefonici di Manhattan, invitato trenta o più amici per sessioni notturne di pittura sui muri e altre attività creative alimentate dalle sostanze. Se questo genere di azione rappresenti il loro provocatorio rifiuto verso il surriscaldato mercato dell’arte e l’affermazione della decadenza del capitalismo, come Deitch e altri suggeriscono, resta una domanda aperta. La mia sensazione è che il livello di auto-indulgenza di questo genere di attività, conserva gli artisti in una sorta di stato pre-adolescenziale, o anche più infantile, dove l’aspetto provocatorio fatica a emergere.

The New Yorker, novembre 2007

Per gli adulti è diventato normale guardare i film a cartoni animati della Pixar: è una cosa che si fa,  è una moda e uno standard, uno standard per registrare il livello di innovazione nei film. Nel secolo scorso c’erano le invenzioni formali di Stanley Kubrick, in questo secolo, a inventare, a proporre soluzioni nuove, a fare film pieni di idee sorprendenti e di grande successo commerciale, c’è la Pixar Animation Studios. Se il paragone sembra eccessivo uno può chiedersi quanti altri film conosca che abbiano come argomento la costruzione del sé, la neuroscienza, la pedagogia comportamentale, se esiste, e siano capaci di intrattenere un pubblico tra i 3 e i 99 anni.

Nel 2010, guardavo Toy Story 3 per la terza o quarta volta, con mio figlio, che in quel momento aveva sei anni, e quando mi è venuto in mente Dash Snow e il suo Nido non stavo pensando che ora nessuno usa più un elenco del telefono di carta e che quindi, come le polaroid in anticipo su Instagram, Dash Snow era molto avanti con i tempi e non mi stavo neanche chiedendo se i brandelli in quella stanza tra Broadway e West Broadway rappresentassero il decadimento del capitalismo o fossero una forma di ribellione infantile: stavo cercando di non piangere. Quando Buzz e Woody e tutti gli altri stavano scivolando verso le fiamme della fornace e a me è venuto in mente il Nido di Dash Snow, non provavo nessuna interpretazione perché, semplicemente, stavo cercando di non piangere. Ora mio figlio ha circa dieci anni e l’altra sera, al cinema, durante Inside Out, questo problema non me lo sono più posto. I rifiuti nella discarica, i brandelli in cui nascondersi e rivoltarsi forse rappresentano il disastro della vita da cui uno cerca di salvarsi, accettare che la tristezza sia un elemento di trasformazione è liberatorio quasi quanto il non trattenere le lacrime.

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