Le cose che faccio quando non mi vedi

Quando sono sotto la metropolitana, e sto aspettando il treno già da qualche minuto, e persino l’ansia di arrivare in ritardo mi ha annoiato, così come il quarto rewind dell’ultima traccia nell’iPod, mi metto a immaginare un attentato. La palla di fuoco di solito arriva dal verso della metro (sinistra) e corre velocissimamente lungo il tunnel, così ho tempo di vederla per bene. Per questo io mi metto sempre in fondo a destra: per vedere bene la palla di fuoco nel caso dovessero fare un attentato in un punto del tunnel < o = la mia fermata.

Quando sono in viaggio, soprattutto sui treni, nelle stazioni e negli aeroporti, uno dei miei obiettivi è evitare di lasciare il mio DNA in giro. Se mi soffio il naso, il fazzoletto umido di muco finisce in un’apposita tasca della borsa, dove rimarrà finché non avrò fatto ritorno a casa, quando finalmente potrò liberarlo insieme a tutti gli altri fazzoletti di casa che non posso impedirmi, a quel punto, di buttare nel cestino dell’immondizia e quindi, da lì, nel cassonetto più vicino a casa mia. Questa destinazione del mio DNA prende il nome di male minore: visto che da qualche parte bisogna disperderlo, meglio concentrarlo tutto in un luogo solo, tanto ormai, se vogliono, mi hanno già localizzata.

Il punto è: se dove sono passata io fanno un attentato, o qualcuno commette una strage, dopo, a fiamme spente, la prima cosa che fanno è andare a cercare indizi nei cestini dell’immondizia. Ammesso che io sopravvivessi all’attentato, l’ultima cosa che vorrei è finire in un commissariato a giurare che non c’entravo niente. Perché, direte voi, il tuo DNA è schedato? E che ne so? È proprio questo il punto. Voi lo sapete? No. Può essere. Nel dubbio, io, che non posso certo impedirmi sempre di uscire di casa, preferisco fare finta che io lì non ci sono mai stata.

Peggio: potrebbe capitare che sui treni, nelle stazioni e negli aeroporti si rechi gente che ha intenzione di fare un attentato, o di ammazzare qualcuno, o di mettere dell’esplosivo in un uovo. La prima cosa da fare – almeno, io farei così – è andare in giro a cercare residui organici altrui – muco, capelli, sangue – prelevarli con una pinza per portarli sul luogo del delitto e lì abbandonarli prima di commettere il reato, o dopo, a bocce ferme, in modo da depistare le indagini.

La gomma da masticare uguale: non può essere buttata. Finisce nel fazzolettino di carta, insieme al muco. A volte, al ristorante, la sputo nel fazzolettino prima di mangiare, ma poi mi dimentico di metterla in borsa, o non ho fazzolettini con me, allora la tengo in mano durante la lettura del menù, fino a quando non arriva il cameriere per l’ordinazione. A quel punto mi alzo per andare in bagno, solo che in bagno, evitando io di fare pipì nei bagni pubblici, ci vado per prendere della carta igienica e creare una pallottola in cui sputo la gomma, che poi riporto con me al tavolo, dove provvedo a disfarmene al solito modo oppure bruciandola alla fiamma della candela a centro tavolo (in questo modo sono quasi certa di aver tolto quasi tutta la danielaranierità all’oggetto “gomma”).

In una città sconosciuta e lontana, o semplicemente in un posto diverso dal mio luogo di residenza e/o di nascita, invece, faccio di tutto per lasciare il mio DNA in giro. Mi diverte pensare che in caso di fine di questa civiltà, e di avvento della successiva, solerti studiosi, dotati di eccezionali mezzi di lettura dei codici genetici, trovino tracce di me un po’ in tutta l’Eurasia, e su quelle basino l’intera conoscenza dei mezzi di trasporto della nostra epoca, e triangolando quelle con le distanze geografiche siano in grado di farsi un’idea precisa anche del nostro sistema di percezione del tempo in merito ai viaggi e agli spostamenti. Io, in questo modo, con il mio unico ed irripetibile codice genetico, sarei il fringuello di Darwin, o se preferite la stele di Rosetta, in base al quale conteggiare, numerare, rapportare, comprendere, le modalità con cui il nostro corpo di uomini del terzo millennio si rapportava allo spazio. E poi, a dirla tutta, non resisto alla vanità vagamente erotica di immaginare questi scienziati che si guardano l’un l’altro pensando «Però, ne ha fatta di strada questo numero 555d».

Nei bar, quando aspetto una persona, oscillo tra la voglia di dirlo a tutti e la vergogna di sembrare una che aspetta una persona. “Aspetto una persona”, ho detto l’altro giorno, come prima cosa, al cameriere che aveva solo, semplicemente, salutato. Lui ha fatto un’espressione che mi è sembrata tra l’indifferente e il partecipe, esattamente a metà, cosa che io ho interpretato come una silente condanna.

Proverò a spiegarmi: quando aspetto una persona, io mi sento come se stessi rubando spazio, tempo, sedie, energie, soldi, corrente elettrica, al bar stesso, nelle persone di proprietari e camerieri. Loro peggiorano le cose, di solito, fissandomi. Allora ordino qualcosa, anche se non mi va niente. “Una bottiglietta d’acqua. Naturale”. La mia scelta, lo so, peggiora le cose. Acqua? In un bar? È un’assassina, secondo me. Il cameriere di solito va dietro il bancone a prenderla. Ovviamente è una mossa per raccontare tutto al barista, che infatti mi guarda. Poi fa altri due-tre giri dietro il bancone – io non guardo perché sto facendo finta di scrivere un messaggio, solo che non devo veramente scrivere un messaggio, però lo scrivo, spesso scrivo ghghguruhgughuek ll jijrgir, perché uso il T9, e per essere certa di non essere scoperta lo invio anche, di solito a Filippo, l’unico che mi risponde con un “?”, che comunque a me fa gioco – e infine, dopo aver finto di portare lo scontrino al tavolo accanto (poteva pure portarglielo dopo, o prima, no?), mi porge l’acqua su un vassoio, con un bicchiere, che ovviamente non uso.

Se la persona si fa attendere molto, io comincio ad agitarmi. Ormai mi fissano tutti, anche gli altri avventori. Se sono vestita bene, e per bene intendo: scollata, penso che mi abbiano preso per una che cerca rogne, magari la ricca moglie di un industriale che è in viaggio, mentre io me la vado a spassare nei bar. Se sono vestita male, e per male intendo: normale, stanno sicuramente pensando che c’è qualcosa di losco in me, infatti sono sola in un bar senza fare niente, con un telefono in mano e un’acqua (!) naturale (!!) davanti.

Per esempio l’altro giorno, mentre ti aspettavo, il cameriere mi ha portato l’acqua, e insieme all’acqua lo scontrino (a riprova del fatto che al tavolo vicino non doveva portarlo proprio in quel momento), così mi sono alzata per andare a pagare alla cassa e per far vedere che non ci ero rimasta male, ma non potevo lasciare tutte le mie cose – che avevo provato a spargere sul tavolino nella parodia della confortevole attesa nei bar dei film. Così le ho arraffate in fretta, mettendole alla rinfusa nella borsa, e mi sono presentata alla cassa con la faccia sconvolta. A quel punto, l’unica cosa da fare era creare un’alterazione della matrice: ho preso anche delle gomme, e un caffè. Silenzio. La cassiera ha guardato il cameriere, come per dire vedi?, è normale. Mentre pagavo, mi devono essere caduti 5 euro, che poi ho anche distrattamente guardato pensando che fosse cartaccia, ma non me ne sono accorta subito, perché nel frattempo tu mi avvisavi con un messaggio che eri ancora lontano, e prendere il telefono nella borsa col portafoglio in mano e tutti quegli occhi addosso deve avere occupato tutta la CPU.

Nel frattempo, il barista mi ha porto il caffè e dentro c’era una faccina fatta col latte. Giuro. Lì per lì non ho capito subito, ero troppo occupata a gestire me stessa e a non lasciar trapelare nessun sentimento. Ci ho versato sopra il dolcificante e l’ho distrutta col cucchiaino, tante volte ci volessero altre prove del fatto che ero sospetta. Allora io, per impedirgli di schiacciare il bottone dell’allarme, o forse nella assurda speranza di recuperare il mio posto nel consesso umano, gli ho chiesto se quello era “latte”; lui, con un’espressione che cercava di sembrare mortificata, ha detto sì, era latte, sei allergica? Io ho detto eh…, come per dire sì. Ma io non sono allergica.

Lui ha fatto la faccia dispiaciuta, poi ha lanciato uno sguardo al cameriere che mi stava passando dietro (secondo me facendo qualche faccia eloquente), e mi ha preparato un altro caffè. In realtà ora che ci penso non so perché l’abbia fatto, visto che tanto lo sapevamo tutti, in quel bar, che non solo io non ero allergica, ma non stavo aspettando proprio nessuno. Allora, per riprendere il controllo della situazione, gli ho detto ma no, ma non dovevi. Ha detto che mi vedeva seria, per quello mi aveva fatto il sorriso. Io stavo quasi per ricambiarlo, ma so con certezza che quelli sono i momenti in cui succedono le cose più terribili. Infatti, ripassando, il cameriere di prima mi ha fatto notare i 5 euro per terra, con sgraziato rimprovero. Io li ho presi senza la certezza che fossero i miei, eppure con la certezza che lo fossero, ma con l’incertezza se li meritassi o meno. Li ho sventolati un attimo per aria con un gesto ridicolo, come cercando a chi darli a parte me, poi li ho messi nella borsa accartocciati, senza nemmeno cercare il portafoglio. Poi sono uscita, e quelli avranno pensato che infatti non stavo aspettando nessuno.

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