Frammenti del silenzio amoroso

Riuscissi a concentrarmi, il tempo che ci mette il linguaggio della mia bocca ad assomigliare al tuo desiderio sarebbe un tempo breve, preciso.

Quella che vedresti per terra sarebbe la limatura tenue di quel tempo, non la grana grossa dell’averti pensato che ti porto in casa.

È un lavoro: scavo per giorni, frollo con la lingua le zolle più dure riempendole d’aria, come fa la vanga quando rovescia l’interno in superficie; estraggo le parole migliori, odorose e distanti; poi prendo la pelle del mio viso e la tendo sulle pietre rese soffici dalla mia ostinazione, la faccio aderire alla carne della terra come cellophane: ecco la mia espressione, che preferisci.

Le parole, la faccia, le luci sulla palpebra (ché una ne puoi vedere, una per volta), i buchi nascosti.

Io so come fare: aguzzo qualche osso sottopelle finché non guardi, poi, quando stai per voltarti, lo rilascio, ed è come se la lingua, dentro il palato che si dilata come le volte antisismiche, dicesse LLLLLL; guardo anche io un inutile altrove, la cui realtà troppo grossa non passa nemmeno il primo pannello degli occhi, e ad un tratto sento che la parola può staccarsi dalla lingua, prendere il suo umido volo fino a un punto dello spazio tra noi, o meglio addosso a tutti i punti, che reagiscono rimbalzandola fino a te.

Così si fa, io lo so. È teatro perfetto del minor tempo possibile: le parole sono tutte ammassate dentro – le più facili e numerose in gola, nella trachea, nell’esofago, le più larghe hanno avuto bisogno del petto – sono tutte schiacciate l’una contro l’altra come pezzi di una stessa matassa di ovatta strappata e ingoiata. Sono distinte, ma compattate sembrano un tampone liscio che suona sordo: prepàrati.

Osso, tensione, rilascio, LLLLLL: non senti niente, questa musica di archetti e palato non fa rumore.

Se mi concentro, se mi concentro bene, riesco a sembrare distratta. È il tempo nel quale rientra il presente, che non è esclusivo ma ricomprende le cose attorno, la vita degli oggetti che poi è il tuo passato (come sono finiti qui? Perché siamo qui, io e loro, tutti insieme? Perché quando arriva qualcuno le cose non se ne vanno?).

Hai tutto il tempo di restare stupito: cos’è quel tacere, quel tendersi dello zigomo sotto la guancia che sembra un dubbio, perché esita la mia ostinazione? Sì, ti rispondi, lei sta pensando a me: ho aperto un varco nel tempo di lei. E poi, subito dopo: lei non sta pensando a me, è distratta. La mia prima parola scatena le tue.

Non sai che le parole che ti ho pensato sono tutte compresse a partire dalla lingua, le zolle di ovatta masticata e ingoiata, simili a teste di bambola, pronte. Non sospetti che sto scegliendo quale tirare fuori, in questo brevissimo tempo: le parole facili (i verbi, io, te, e, sì, anche, domani, ieri, lavoltascorsa) che da sole sembrano facili; le parole capelli (mh, ah, ma no, non, è), tutte sfilacciate, evanescenti, sottili; le parole sutura (forse, però, guarda, penso, grazie, ecco), che la saliva ha reso clementi; le parole gesso (non lo so, infatti, non posso, certo, va bene) che si sono attaccate tra loro e adesso pesano, e mi cambiano la voce quando risalgono. Tra le parole gesso c’è anche il silenzio, il silenzio che parla.

Non conosci il segreto operare del pensare femmina.

Io questo lo faccio bene. Stiro la velocità nel mezzo sorriso. Le parole si mettono in fila per venirmi alla bocca, le prendo le scarto le sfilaccio le riduco le lego le ammasso le amalgamo le espello, ed è per delicatezza che simulo la distrazione, perché non tremino le parole al contatto con te, perché questo dono ti resti segreto.

Infatti non ti accorgi di niente, perché sono perfetta. Sei talmente convinto che quello che ti sto dicendo sia attuale, improvviso, relazionale, e che sia solo il riflesso della mia onestà, che hai persino il tempo di notare il mutamento della luce attorno ai granuli delle mie palpebre. Quello che ascolti adesso fa male: è più vero.

A volte, qualcosa si inceppa: dimentico di masticare l’aria, l’osso non scatta, la lingua resta ferma sulla “t”, poggiata sugli incisivi. Sono distratta, ma sembro concentrata. Lo vedo: ti deludo. Tu ti sei voltato e io sto guardando te, e non ho niente da dire, cioè nessuna parola da tirare fuori, sono tutte ferme, a intasarmi gli organi che servono per parlare e per mangiare e bere e per respirare. Quando non so cosa dire non faccio silenzio – il silenzio è nostro come un nobile maniero, un tempo largo arrotolato attorno alle nostre spalle. Invece, parlo, ma non parlo le parole giuste.

Cosa posso darti oltre alle parole? Lecca la polvere sulle mie unghie, potrei dirti, ma solo con le parole, e quelle non le ho messe in bocca ieri e l’altro ieri: in bocca ho messo, e poi ho mandato giù, le parole che dovrebbero suggerirti di leccare le mie unghie. Ma tu sei concentrato, distratto, guardi lo schermo, guardi me, guardi l’aria tra noi. Cosa ti aspetti dal linguaggio? Perché mi chiedi così poco?

Ho trascurato quell’attimo, la massa di parole mi strozza, e non ce n’è una che si faccia avanti a soccorrermi. Non dico una parola sutura, non posso salvare qualcuno che non sta chiedendo aiuto; meno che mai potrei pretendere di evocare un certo, o un infatti, che ingessino le fratture del tempo in cui siamo stati lontani (microfratture, frastagliate come quelle degli ossi presi a bastonate); ma nemmeno una parola capello, così sottile ed elastica, un verbo, un io, un te.

Le parole che senti non ci appartengono, sono quelle che prendo a prestito dagli altri – e infatti te ne addolori. Riconosci all’istante la natura esterna di certe espressioni. Non le meriti, insorgi. Zitta ma non costretta da te a stare zitta, zitta senza la tua mano sulla bocca, zitta. Privata del tuo divieto a parlare, zitta. Zitta come quando tu esisti altrove, come quando qualcuno mi parla. Un silenzio di tutti che è un silenzio insanabile.

Tutto cospira a tacere di noi

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