La forza che vorrebbe dormire e è costretta a vegliare


«Mi intendi? Non si tratta di godersela»

È la distanza a strapparci le braccia: ci agitiamo molli dentro lunghe, silenziose, immobili pause (la testa schiacciata dalla pressione, l’assetto tale da sopportare, e non da fendere, il sonoro e solenne peso cubico di tutti gli oceani), come molluschi avvolti dalla notte nera dell’acqua definitiva.

Niente accade, a parte il particolare respirare di noi molluschi, che come il sangue nei piccoli cuori dei topi ci basta dentro inverni che si susseguono; nessuna luce filtra nel nostro presente, nessun suono arriva da quella cosa tutta umana, là, di sopra. Vicino alla pelle urticante dei coralli, passando, o entrando da porte indifferentemente aperte, succhiamo la nostra solitudine salina.

«Natura illimitata, dove stringerti?»

A volte – disgusto salubre, novità portentosa di fastidi – ci sembra di avvertire un’increspatura a centinaia di chilometri più in su, provocata dall’opera viva dell’aria –
un tremolio sulla cute soggetta alle stagioni
il passeggero vuoto circolare di una bolla gonfiata dal movimento terrestre
la caduta e l’immersione di un frammento siderale che si infila nella massa acquosa come un chiodo
la zampa di un uccello che si aggrappa alla schiena della nostra casa senza ossa, per bere un chicco di tutto quel sopra sterminato e quindi anche di noi
– che ci ridestiamo.

Siamo attirati l’uno verso il buio dell’altro.

«Sento che il seno mio gli va incontro»
«Per quanto mi stringa al suo seno, sentirò sempre la sua pena»

È un voltarsi impercettibile di carni plastiche e idrorepellenti, uno sfrigolare di baffi, uno sgranare di occhi, un fiato di branchie: la direzione siamo noi. Hai parlato?

«Il messaggio lo intendo, è la fede per capirlo che mi manca»

Ecco l’errore: lo abbiamo chiesto mille volte al dorso indifferente del mare, al suo interno pieno di se stesso, sordo e muto. Lo abbiamo chiesto con quel sinfonico destarsi di membra marine, gorgogliante e ridicolo, subito assorbito dalle profondità oscure.

Un giorno (anzi era sera) abbiamo parlato per primi:

«Sento che alita intorno, ragazza, il tuo spirito di plenitudine, di ordine… mi senti?»
«Mi sento qualcosa… »

Suoni umani!, distinti!, rompendo il duro buio.

Ti sento, abbiamo detto insieme dopo qualche istante-marino, e continuavamo a chiedere mi senti?, e insieme rispondevamo sì, ti sento, ed è stato tutto un risveglio di spugne, di scogli, di carcasse, di spume, di coralli, di piccolezze dormienti, di croste, di conchiglie che non rimandavano nessun rumore di terra.

Insieme ci siamo mossi incontro, muscoli mobili e mezzo accecati dentro il muscolo grande del mare, ci siamo diretti verso la luce del sole e dell’altro, snodati e risoluti, gravi e come sorridenti, con tutto lo stuolo fosforescente del popolo marino a farci da corte e da ali.

Poi un’altra scossa, tutto il mare pesante si è messo sottosopra: era tutto un non. Non mi ricordo la tua faccia, non mi ricordo il colore. Non vale la pena muovermi.

«Ma guardalo, come ripiglia a schiumare, a bruciare!»
«Io le sono vicino anche se fossi lontano, non la potrei scordare mai né perderla».
«Povera testa mia, che non mi reggi. Povera mente mia, ti sei spezzata»

La pace è persa. Il futuro anteriore è tutto assorbito. Non averti mai udito, non aver mai visto l’oro bucare il buio! Impossibile ricomporre l’infranto.

«Sei tu sei un uomo, la mia angoscia sentila»
«Zitta! Zitta. Vengo a liberarti»

Quando ci siamo raggiunti, quando siamo entrati dentro la chiarità indiscutibile della vita viva dell’altro, tutta la carne del mare scossa dall’inerzia si è fermata, e il suo mantello che è esso stesso si è strizzato, bagnando e asciugando sempre se stesso, e le miriadi coralline hanno taciuto il loro argentino pigolìo; allora noi, impacciati e asciutti, ci siamo danzati intorno, in un abbraccio di correnti fluide, e mentre i nostri occhi cominciavano a vedere di nuovo, ci siamo riconosciuti, miracolo che già una volta è avvenuto dentro il cilindro spugnoso dell’Universo.

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