La vita di D.

La vita di D. è scorsa ordinaria. Certo punteggiata, come tutte le vite, di fatti che hanno determinato svolte piccole o grandi, conseguenze e cambiamenti, ma nulla vi è accaduto di davvero stupefacente.

Percorrendo a ritroso questa vita, in tutto banale, può essere curioso notare di essa alcuni avvenimenti e relativi discendimenti.

A otto anni, lasciato durante i mesi estivi da trascorrersi in città alle cure di uno zio, passava il tempo facendosi leggere dei romanzi. Lo zio era infermo e questo per forza di cose limitava la possibilità dei giuochi all’aperto. Per compensazione lo zio prendeva dei grandi libri e li leggeva a voce alta nella stanza del soggiorno, alla piena luce del sole. Dalla prima all’ultima riga si erano così consumati Le ventimila leghe sotto i mari e le Tigri di Mompracem, i Tre moschettieri e Vent’anni dopo. Alla fine di questo allo zio scappò l’allusione a uno strano racconto il cui protagonista si trovava ad essere trasformato in uno scarafaggio.

D. insistette da subito perché quella storia gli fosse letta senza attese e a nulla valsero i tentativi di dissuasione dello zio: ragionevolmente fondati sul tema e lo stile, sulle possibili influenze malinconiche.

Un preciso passo di quel racconto determinò un cambiamento destinato a perdurare fino all’estinguersi della vita di D. Quando la sorella di Gregorio Samsa scaglia una mela che va a conficcarsi nel carapace del fratello e da lì non può esser tolta, D. prese, suo malgrado, l’abitudine di trovarsi nella mente conficcate delle frasi del tutto ordinarie, in sé per nulla differenti da altre frasi altrettanto ordinarie, che non potevano essere tolte.

Si ritrovava D., come Gregorio la mela nella schiena, a fissare frasi di fronte alle quali rimaneva del tutto stupito e l’ordinaria banalità delle stesse non lo distoglieva dal vedervi un mistero la cui soluzione non poteva essere organizzata. Una forma di ebetismo di limitata durata, anche se ricorsiva, che non pregiudicò eccessivamente le relazioni personali di D., almeno a vederle dall’esterno.

«Chissà perché alcune frasi rimangono impresse nella memoria e vi restano anche a distanza di anni pur non rivestendo alcun rilievo particolare, né per forma né per significato», gli era capitato di pensare più di una volta.

Diversi anni dopo un avvenimento per certi versi associabile a questo ebbe conseguenze altrettanto definitive. Per lo svolgimento di un compito scolastico gli era capitato di dover terminare la lettura di un romanzo in cui un agrimensore avrebbe dovuto misurare le dimensioni di un castello e delle terre circostanti. Per qualche ragione la lettura di quel libro si rivelò inesausta, contrariamente alle pigre abitudini che contraddistinguevano il regolare sfogliare dei capitoli di D. Verso la fine del libro, addirittura, gli succedeva di leggere in strada, camminando. Fu nel tragitto tra il pianerottolo di casa e l’ascensore che giunse all’ultima pagina e con le porte dell’ascensore che si chiudevano alle sue spalle scoprì che il romanzo non si concludeva affatto. Lo specchio dell’ascensore gli restituì, subito, la sgomenta delusione arrampicatasi sulla sua faccia. Da allora come un senso di tristezza, di vanità degli sforzi, lo prese tutte le volte che doveva entrare in un ascensore, al punto da spingerlo a evitare la cosa ogni volta che fosse possibile.

Il famoso dietologo Alain Dukan, in un libro di grande successo, consiglia di bruciare delle calorie preferendo le scale all’ascensore. D. si sentì rincuorato da questa lettura e da allora spese questa citazione come giustificazione del suo negarsi ad ogni ascensore, senza rivelare a nessuno il suo segreto.

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