La situazione del calcio greco

C’è una Grecia che sa l’inglese, prepara mojito da 12€ l’uno, vista mare. Ci si arriva in aereo, poi traghetto. Somiglia a tanti altri posti, dove si arriva in aereo, si parla in inglese, si beve mojito, vista mare.

– Che limpido questo mare, che fresco questo mojito.

–Twelwe, please.

– Thanks.

– You’re welcome.

Dormiamo nella guest house di un benzinaio, e “guest house” sono le uniche parole in inglese della zona, a parte le nostre. Ci arriviamo tardi, verso l’una di notte, in macchina: non abbiamo il navigatore e neanche il 3G sul telefono. Cerchiamo di accordarci sulla colazione, il benzinaio-oste parla greco: gli chiediamo in inglese e ci risponde in greco, risoluto.

– Pensavamo la colazione fosse inclusa.

– Va bene.

Arriva sua sorella o sua moglie.

– No, non è inclusa, costa 5€.

Anche lei in greco.

– Ok, la prendiamo, per quattro.

– Anzi, no sono 10€, a testa.

Sempre in greco.

– Non importa, lascia perdere la colazione, buona notte.

La stanza è dipinta di verde spento, infissi di alluminio, mobili sgraziati e ingombranti, la scrivania disegnata per essere inservibile: c’è una sbarra di metallo sotto il piano di legno che impedisce alle ginocchia di stendersi; le finestre danno su terrazzino lungo neanche un metro, impossibile sistemarci una sedia.

Usciamo al mattino, facciamo colazione con yogurt e gli avanzi di frutta del giorno prima. Stiamo fuori tutto il giorno, arriviamo alla punta del Mani e torniamo, sulla strada del ritorno le uniche luci vicino al benzinaio-guest house sono quelle di una taverna. Vediamo se hanno qualcosa da bere. C’è un terrazzo con degli ulivi nelle aiuole, elevato su un piccolo parcheggio, dentro il locale una cucina a vista  e qualche tavolo. Ci sistemiamo fuori, sul terrazzo: ordiniamo ouzo e acqua fresca. Il taverniere parla greco. Gli diciamo in inglese e lui risponde in greco, gentile. Ci sistemiamo fuori e giochiamo a carte, siamo uno dei due tavoli occupati, nell’altro c’è il taverniere, un paio di uomini, un paio di donne, tutti sui sessant’anni. Probabilmente abitano nella casa di fianco o sul retro. Giocando a carte facciamo chiasso. Il taverniere fuma diverse sigarette e sembra infastidito dal rumore. La luce è pochissima. A mezzanotte ci dice che deve chiudere, finiamo l’ouzo e gli chiediamo a che ora apra domani.

– Alle otto.
Ci capiamo a gesti.

Passata la seconda notte alla guest house, al mattino, ritiro il bucato che ho faticosamente steso sul minuscolo terrazzino: passare tra l’apertura delle finestre, lo scalino che dà sulla camera e lo stendino, che ho chiesto al benzinaio indicando quello sul balcone del vicino, è difficile. Paghiamo e andiamo via, andiamo alla taverna a fare colazione. Ci sediamo allo stesso tavolo della sera prima, ordiniamo caffè greco doppio senza zucchero, per due, un caffè frappé con poco zucchero, un latte con cioccolato e impariamo come si dice “zucchero” in greco. Chiediamo di mangiare qualcosa. Il taverniere è imbarazzato, è un uomo grosso, con la barba e i capelli grigi, ha una maglia bianca con lo stemma della Puma e una stella blu a cinque punte dentro un cerchio, è imbarazzato, non sa cosa darci. Entra nel locale, si consulta con le donne, torna e ci propone – Omelette?  Benissimo, omelette e pane per tutti. Finita la prima ne ordiniamo una seconda, sì, andava bene, siamo italiani, veniamo da Torino, Juventus, Torino FC; si indica la stella blu a cinque punte sulla maglia bianca

– Ατρόμητος!

Fa segno di aspettare, entra nel locale e esce con un calendario in mano. È il calendario degli ultras dell’Ατρόμητος Αθηνών, ci sono foto di tifosi tra i fumogeni e scontri con la polizia, una per ogni mese. Lascia il calendario sul nostro tavolo e lui si siede al suo, accende una sigaretta: è uno di loro, ci ha fatto capire. Sulla porta della locanda c’è un adesivo dell’Ατρόμητος. Nelle foto del calendario, ci sono tifosi con il passamontagna e con la kefiah,  scritte contro le telecamere della FIFA e contro i poliziotti. I tifosi sono quasi tutti vestiti di scuro: jeans e felpe nere. Da qui allo stadio dell’Atromitos, novemila posti a sedere, a Peristeri, nella periferia industriale a nord-ovest di Atene, ci sono circa tre ore e mezzo di macchina, duecento settanta chilometri. Dopo il derby Panathinaikos – Olympiakos del 24 febbraio 2015 il primo ministro greco Alexis Tsipras aveva sospeso a tempo indefinito il campionato di calcio. Il ministro dello sport Stavros Kontonis aveva messo in dubbio la possibilità di giocare la stagione 2016 se la Federazione non avesse introdotto nuove misure di controllo e selezione del pubblico. Il campionato è ripreso dal turno successivo, il 4 marzo, per un paio di giornate senza spettatori negli stadi. Il 12 marzo la partita dei quarti di finale di coppa di Grecia tra AEK Atene e Olympiakos è stata sospesa per il lancio di un razzo in campo, all’88° minuto, aveva segnato l’Olympiakos. Nella stagione 2014-2015 l’Atromitos è arrivato quinto nella stagione regolare e terzo nei play off, che nella Souper Ligka Ellada, il campionato di serie A greco, si giocano tra la seconda e la quinta classificata. Con 13 gol l’italiano Stefano Napoleoni – romano, classe ’86 – è stato il bomber della squadra. L’Atromitos non ha mai vinto niente, nessun campionato, nessuna coppa. Nel 2011 ha giocato la finale di coppa di Grecia contro l’AEK Atene, ha perso tre a zero. Su Ebay si può acquistare il dvd della partita, in copertina c’è la foto dell’invasione di campo dei tifosi. Essendo arrivato terzo in campionato l’Atromitos giocherà la prossima Europa League.

Finiamo il giro del Mani a Githion, la notte dormiamo a Skala. Il giorno dopo ci separiamo, Francesca e Simone continuano con la Nissan Micra rossa per l’ultimo dito verticale del Peloponesso. Io e Milo, mio figlio di dieci anni, tagliamo dall’interno, con la Hyundai i20 bianca, verso la costa, che poi risaliremo fino a Corinto e da lì a Patrasso, dove a ferragosto prederemo la nave per Ancona. Lungo quella costa troveremo molti adesivi dell’Olymipakos, attaccati ai registratori di cassa e sul retro delle automobili. Da Skala a Sampatiki c’è circa un’ora e mezzo di macchina, sono settantacinque chilometri, si sale e si scende per le montagna, si passa per Kosmas e Leonidio. A un ragazzo di dieci, quasi undici anni, difficilmente interessa il paesaggio. Più facilmente gli interessa leggere o giocare con dei videogiochi. Quando i miei genitori mi portavano in viaggio in macchina anche io facevo lo stesso, senza i videogiochi. Da Skala verso la montagna si comincia a salire dolcemente, si attraversano distese di ulivi. Ai due lati della strada: ulivi a destra e a sinistra, piantati nella terra rossastra che mi ricorda la Sardegna. Milo chiede quanto dura il viaggio e poi comincia a leggere. Sta leggendo l’Almanacco del calcio 2015, edizioni Panini. Gli piacciono le statistiche, rilegge i risultati delle partite, ogni tanto ne commenta qualcuno a voce alta, con sorpresa. Da dietro una collina, tra gli ulivi a destra e a sinistra, spunta un palo alto con dei riflettori in cima. Per attrarre l’attenzione di Milo gli dico – Guarda, uno stadio! La strada si assesta in piano, a sinistra ulivi, a destra un campo recintato con quattro gruppi di riflettori, alti sui loro pali, ai quattro angoli: non è uno stadio, non ci sono tribune né spalti, nessun posto a sedere. È un campo da calcio, ci sono le porte con le reti bianche e l’erba tagliata di fresco che brilla al sole. Lo superiamo, io e Milo ci guardiamo.

– Proviamo a entrare?

Tucidide non lo odiavo particolarmente, ma lo odiavo particolarmente il lunedì mattina. Il lunedì mattina era il giorno in cui la professoressa Mastrota aveva deciso di fissare la traduzione dal greco. Le prime due ore di ogni lunedì mattina, per tutto l’anno. Tucidide non lo odiavo più di Plutarco, Lisia, Senofonte, Pausania e tutti gli altri addetti a quel supplizio chiamato versione, ma il lunedì era il giorno dell’esercizio dell’odio. Tucidide aveva deciso di dedicare gli anni di esilio da Atene mettendo a posto i suoi appunti sulla guerra. Gli era venuta l’idea di scrivere una cosa che aveva visto, con la massima esattezza possibile, raccogliere documenti e testimonianze e mettere insieme una storia. Tucidide era stato sulle navi ateniesi, le aveva comandate da stratega, da stratega aveva perso ed era stato condannato all’esilio. Era ricco, aveva delle miniere d’oro da sfruttare, aveva pensato che quella tra Atene e Sparta sarebbe stata la guerra delle guerre e quindi si era messo a scriverla: aveva il tempo, aveva i soldi, aveva i suoi appunti e faceva le sue ricerche, ha scritto La guerra del Peloponneso. Erodoto aveva cominciato a usare questa parola: storia, che allora voleva dire fare ricerca, e “storia” continua a essere usata oggi con il doppio significato di racconto attinente a fatti realmente accaduti, elaborato con precisione e metodo, e di racconto inventato, versione immaginaria di fatti mai accaduti.

Intorno non c’è nessuno, c’è il recinto alto cinque metri, di rete colorata di giallo e rosso. C’è un casotto basso, probabilmente gli spogliatoi, sopra sventolano due bandiere, quella greca, blu e bianca, e una gialla con uno stemma rosso e la scritta

ΗΦΑΙΣΤΟΣ

in rosso.

– Non so se riusciamo a entrare.

Da vicino l’erba appena tagliata è ancora più bella.

– Ma ti arrestano se entriamo?

– No, non mi arrestano, ma vediamo se ci riusciamo a entrare.

La porta del recinto, di rete metallica, è vicino al casotto basso con le bandiere, c’è un chiavistello, infilo la mano tra i passanti della rete e lo sblocco: è aperta. Siamo dentro, prendiamo un pallone dalla macchina, ci mettiamo le scarpe da ginnastica, entriamo, ci togliamo le magliette le buttiamo sull’erba e cominciamo a correre tirandoci il pallone. Milo si mette al centro dell’aerea, io gli faccio i cross dall’ala. Ogni tanto passa una macchina sullo sfondo degli ulivi, dietro la porta, oltre il recinto. Proviamo le punizioni, poi una sfida ai rigori, cinque a testa, diciamo a voce alta il nome del giocatore che tira e del portiere che cercherà di parare. Tira Bastian Schweinsteiger, para Iker Casilas; tira Matteo Darmian, para Gigi Buffon e via così, con la cronaca a voce alta dell’esito del tiro. Quando finiamo i cinque rigori siamo pari e andiamo a oltranza, poi stabiliamo una rivincita e ricominciamo. Ogni tanto passa un camion. Vedo un aereo militare, non fa nessun rumore, attraversa il cielo e ci supera. Mi giro per indicarlo a Milo e arriva il rumore, tutto insieme, forte. Milo è sorpreso, il rumore ha rotto l’intimità del nostro prato verde. Mi chiede

– C’è una guerra?

– No.

– Sei sicuro?

– Sono sicuro.

Arriva un secondo aereo, il secondo rombo non è un’intrusione, è la conferma della realtà del primo.

– Papà, sei proprio sicuro che non c’è una guerra?

– No, non che io sappia.

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