Da quando, un anno fa circa, l’ho letta per la prima volta questa frase mi è sembrata utilissima. E in questo anno che è trascorso, da quando l’ho letta per la prima volta, non ha smesso di essere in effetti utilissima: a spiegare, a capire, a scacciare.
La frase l’ho trovata qui è
una frase di Viktor Šklovskij che, a proposito del racconto di Čechov Uva spina, scriveva: «Alla fine dell’Uva spina il protagonista è contento di sé; e questo è il dramma più terribile, che un uomo sia contento della propria esistenza».
Per esempio è una frase utilissima a spiegare un certo malessere che si prova, almeno io lo provo, nei momenti di compiacimento di me. Il senso del ridicolo, inesorabile, che si prova nell’autocompiacimento.
Quella frase lì è come un amuleto, un feticcio d’antidoto contro l’inesorabile senso del ridicolo che coglie nel compiacimento di sé. La evoco e mi passa, una preghiera.
Il problema viene però specialmente nell’estate, quella stagione dove in tanti camminano come pensando d’essere particolarmente osservati e degni, soprattutto, d’essere osservati. La stagione dove il compiacimento di sé si raggruma e diffonde a un tempo solo. In tante occasioni vedi il compiacimento di sé, delle proprie prenotazioni, dei propri gusti, che cammina, vestito leggero.
Io personalmente non ho nulla contro l’estate; come tutti, credo, mi piacciono il tepore, il mare, il pesce e il vino bianco. Ma trovo che d’estate quella frase sia ancora più utile che nelle altre stagioni.