Nostalgia e genìa – Sanremo 2014

Non siamo abbastanza ma se ci stringiamo vicini vicini siam pur sempre qualcosa.

L’Italia è un treno in bilico che verrà salvato dal pavimento della Reggia di Venaria, un sipario che non si alza e comincia il periodo barocco di Fabio Fazio che non fa in tempo a completare la metafora e si trova lui, in bilico, a dover dare parola: -Onorerò il fuori programma come se l’avessi voluto.

I ricordi di quando ci baciavamo in cima alle scale, di quando c’era ancora papà, in ogni caso il meglio è passato: il verso che dice tutto questo Festival lo canta Giusy Ferreri.

La retorica dei migliori, se non del merito, di Fazio nella sua fase matura, barocca appunto, ci porta i figli di e la nostalgia di quando.

Di quando, un volta, Mauro Pagani faceva cose che parevano irricevibili, o almeno bizzarre, e le faceva con un cantante che non era abituato a essere prevedibile, né ad aprire gli spettacoli in prima serata su RaiUno o a somigliare a uno che riempia gli stadi. Devo dire che questo uso liturgico di De André mi pare che, come dire, ne snaturi un poco il senso, ma magari è un fatto mio, di memoria mia, di nostalgia mia e non collettiva e le memorie individuali non sono il posto per questo palco, che è il posto per quelle collettive.

Infatti potrei ricordare, come memoria individuale, un pippotto, come dice Baglioni, sulla differenza tra un artista e un intellettuale, tra uno che usa le metafore e uno che le spiega, che starebbe in questo: l’intellettuale per mangiare deve integrarsi, perché altrimenti come campa? Ma se si integra l’artista ce l’abbiamo nel culo. Se non mi fossi annoiato da solo ricorderei volentieri questa registrazione di De André, con la voce impastata, contenuta nel documentario Faber.

Ma via, mi manca da morire / quella sua maglietta fina, e con questo, alla nostalgia di quando e ai figli di aggiungiamo l’ultimo corno del Fazio Barocco: gli amici miei.

In ogni caso la scelta di non eliminare nessuno degli artisti in gara, ma solo una delle loro canzoni, è di certo più decente, dell’altra formula che dichiarava un chiaro complesso d’inferiorità verso il televoto. Anche se le eliminazioni hanno portato

un momento di cuore assoluto, forse il più fragile e intenso e bruciante e vero mai messo in scena a Sanremo (Francesco Farabegoli).

Parliamo di Toto Cutugno.

Toto Cutugno è un interessante incastro: Toto è un cardine, diciamo proprio così, dell’inchiavardarsi della memoria collettiva, quella che permette, stando vicini vicini, di essere qualcosa, in bilico, col meglio andato via, col sipario che non si alza, strada facendo, ma pur sempre qualcosa.

Toto Cutugno giunge le generazioni:

saltava sempre fuori qualcuno che la sapeva più lunga e ti diceva che da giovani erano bravi i Pooh, avevano fatto dei dischi progressive. Era sempre così, con tutti (tranne Toto Cotugno). Erano stati tutti prog, o punk, o fighi in qualche altra maniera, finché non eravamo arrivati noi ed erano diventati bolsi, assimilati, ogni resistenza era inutile. (Leonardo Tondelli)

Toto Cutugno fa sognare palingenesi nazionali:

E tutti gli anni, quando sento il discorso del Presidente della Repubblica, questo discorso finisce con l’inizio dell’inno italiano, che si intitola, come è noto, Fratelli d’Italia, e a me tutti gli anni viene in mente che a me, quando ero piccolo, negli anni sessanta, e andavo a scuola, c’era il maestro di musica, col pianoforte, che mi faceva cantare Fratelli d’Italia. «Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte». Avevo sei anni. E tutti gli anni, dopo, mi viene in mente che poi, quando da grande stavo studiando per la tesi, e per scrivere la tesi ero finito in Russia, e avevo scoperto che i russi conoscevan benissimo la musica italiana, e gli piaceva cantare le canzoni italiane, e che c’eran delle canzoni, che in Italia io non avrei cantato neanche se mi pagavano, che in Russia ho cantato più volte, con piacere, dentro degli appartamenti minuscoli, in cucine strettissime, seduti su degli sgabelli intorno a un tavolo con sopra una bottiglia di vodka, un baton di pane nero, due cetrioli e tre pomodori, e una di quelle canzoni, la canzone italiana che ho cantato di più, in Russia, è stata Un italiano vero, di Toto Cutugno, e questa canzone, secondo me, quando sento l’inno nazionale, io questa canzone, che noi in Italia un po’ la snobbiamo, sentirla fuori dall’Italia io mi ero accorto che questa, per me, è la vera canzone che dovrebbe diventare l’inno nazionale, e a me piacerebbe moltissimo, penso tutti gli anni, vedere i giocatori della nazionale che, una mano sul cuore, al centro del campo cantano: «Buongiorno Italia gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente, con l’autoradio sempre nella mano destra e un canarino sopra la finestra». 
Chissà se succederà mai. (Paolo Nori)

Festival di Sanremo 2013 Opening Night

Toto Cutugno che paga di tasca sua il coro dell’Armata Rossa per portarlo a Sanremo. Dove li avrà messi a dormire, con gli alberghi pieni durante il Festival?

Toto rappresenta benissimo il mare, i giochi, le fate, la paura e la voglia di cantare insieme le stesse canzoni, da questa parte del sipario.

Per forza, però, resistono, emergono le memorie piccine, solitarie: uno non ci può fare niente se la maglietta fina te la insegnava di nascosto la tua mamma perché sul piatto in soggiorno girava Claudio Lolli e la sua Autobiografia industriale.

Non ci si può fare niente se non sperare in una sintesi, una mediazione, un venirsi incontro. Per esempio sperare che stasera, tra le canzoni della storia italiana, ci sia posto anche per la tua di memoria.

aggiornamento: la suoneranno, solo la sera di venerdì e non di giovedì.

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