L’importanza di essere sfigati

Chiaro che se uno si è formato culturalmente su Dylan Dog poi non può lasciarsi passare le coincidenze sotto il naso, senza cercarci un filo.

#1
Questo articolo di Guia Soncini su Aaron Sorkin, lo scenegggiatore.

Chissà se Sorkin ha visto Almost Famous, il film di Cameron Crowe ambientato nel mondo delle rock band degli anni Settanta. C’è una scena in cui il protagonista, un ragazzino aspirante giornalista, telefona a Lester Bangs. Bangs è un tizio che ha cambiato il modo di scrivere di musica, e il cui culto è ancora oggi di nicchia ma solidissimo (i suoi articoli in Italia sono stati raccolti dalla casa editrice minimum fax). Gli telefona perché non sa bene come muoversi in quel mondo, e Bangs gli dice che capisce benissimo cosa sta succedendo: quei rockettari l’hanno convinto d’essere un figo, ma lui non lo è. È uno sfigato. Il che, va avanti a spiegare, sul lungo periodo è meglio, è temprante, e tutta l’arte di cui valga la pena parlare tratta di quello: di sfigati che non saranno mai davvero fighi. Il ragazzino lo ringrazia, gli dice che è contento di averlo trovato a casa, e quello sospira: “Sono sempre a casa. Sono uncool”.

#2
Questo lista di Emiliano Colasanti su 15 cose da fare e non fare per scrivere una buona recensione musicale:

Dimenticare Lester Bangs. Subito. Riempire i tuoi articoli di parolacce, espressioni al vetriolo e momenti di assoluto egocentrismo non fa di te un critico più geniale e bravo degli altri. Spesso sei solo più ridicolo. Lester Bangs era uno scrittore prestato alla musica. Tu probabilmente no. Sei solo un tizio che scrive per una webzine, che fra un paio d’anni potrebbe finire a fare l’agente immobiliare. Poi magari anche no, ma potrebbe succedere.

(parentesi: che poi c’è chi il Signor Bangs lo sa usare, come Mr. Potts “Sorridi, certo, che altro puoi fare di più vero nel momento in cui, per scomodare il sommo Bangs, «sei catapultato a suon di musica fuori da te stesso… in cui ti cibi di fulmini, e nessun’altra cosa nel regno dei vivi e dei morti ha più alcuna importanza»?” fine della parentesi.)

Se vuoi proprio avere Bangs come nume nutelare, va bene. Ma soprattutto per un punto: Lester Bangs è vissuto e morto con la consapevolezza di essere uncool.

#3
Quindi, il filo: la ricorrenza di Lester Bangs e l’importanza di essere totally uncool, completamente sfigato.

Mi ricordo una volta, in una pausa della indefessa lettura di Dylan Dog, di un articolo a proposito dell’allora mio cantante preferito – Eddie Vedder, che va ancora per la maggiore, per altro. L’articolo sosteneva che Eddie al liceo fosse un figo. Uno che usciva con le cheer leader, per dire. Lui se l’era presa a male, e parecchio, e ci teneva a sottolineare che non era vero, che nessuno lo invitava alle feste, mai. Che se ne stava da solo a rimuginare sul suo patrigno, quello su cui poi avrebbe scritto quella canzone “Your real daddy was dyin’ / Sorry you didn’t see him / But I’m glad we talked… ” e via dicendo. Ma così perdiamo il filo.

No, il punto è questo, l’altro giorno sono andato alla presentazione di un libro e l’autore era veramente stanco di fare quel genere di cose e lo vedevi che voleva tornarsene a casa, ma casa-casa non l’albergo, e non ne poteva più delle domande e di stare in stanze piene di gente che voleva sapere qualcosa da lui. Poi però c’è stato un momento in cui ha detto veramente qualcosa, non una battuta perché tutti si potessero portare via un ricordo positivo dello scrittore che leggono, una cosa sua. Ha detto che quel libro, quel libro che aveva colpito tutti per questo o quell’altro aspetto, era un libro a proposito della solitudine, della sua solitudine e del suo smarrimento nel sentirsi irrimediabilmente solo e inadeguato proprio quando ce l’aveva fatta ed era esattamente dove voleva essere. E di tutta la sofferenza che questo comporta. Perché scrivere, diceva, è soprattutto scrivere della propria sofferenza.

#4
Ieri guardavo una puntata di quella serie tv sul Presidente USA, che poi è scritta dallo stesso Aaron Sorkin di cui sopra, e c’era il Presidente che stava cercando una buona battuta da dire alla festa di gala per il compleanno di sua moglie e racconta al ragazzo che gli fa da assistente una storiella, per vedere se funziona. Quando ha finito, il Presidente, gli chiede cosa ne pensi e il ragazzo risponde che no, non funziona, perché sembra una storia su quanto lui stesso sia figo («it seems like a story about how cool you are»).

Ecco, tutte queste coincidenze, queste ricorrenze concentrate in poco tempo, di uncoolness mi hanno fatto ricordare di una cosa di cui sono convinto più o meno da quando ho smesso con Dylan Dog. Che tu, quando hai a che fare con l’opera di un artista, se ci fai caso e se hai un po’ di fortuna, riesci a intravedere una sorta di atteggiamento da parte dell’autore. Non tanto le sue intenzioni rispetto al messaggio, quanto la predisposizione con cui si è messo a raccontare. A me sembra che ci siano un sacco di autori, probabilmente ci sono sempre stati, che scrivono soprattutto per far notare quanto sono brillanti e riusciti e per nascondere il meglio possibile ogni loro debolezza. E non funziona; alla fine non noti che quello che stanno cercando di non farti vedere. Come i risultati della chirurgia estetica su certe persone, che quando le guardi l’unico sollievo è immaginare una ruga. Lo vedi che così si perde quello che conta, quello per cui si resta, tanto ad ascoltare, quanto nella memoria della persone.

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